Nel caso Cusan e Fazzo c. Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo accerta che la trasmissione del cognome paterno ai figli si fonda su una discriminazione basata sul sesso dei genitori

Image Strasburgo, 7 gennaio 2014 – Con sentenza del 7 gennaio 2014, nel caso Cusan e Fazzo c. Italia, (ricorso n. 77/07) la C.E.D.U. ha accertato, a maggioranza, la violazione dell’articolo 14 (divieto di discriminazione) combinato con l’articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare). Il caso riguarda la possibilità di trasmettere ai figli legittimi solo il cognome paterno e quindi non quello materno. Secondo la C.E.D.U., la trasmissione del cognome paterno si basa esclusivamente su una discriminazione fondata sul sesso dei genitori, in contraddizione con il principio di non discriminazione. I ricorrenti sono i coniugi Alessandra Cusan e Luigi Fazzo, cittadini italiani, nati rispettivamente nel 1964 e nel 1958. Nel 1999 ebbero una figlia. Il padre chiese di poter iscrivere la figlia nel registro di stato civile con il cognome della madre e non con il proprio. Tale richiesta fu respinta. I ricorrenti presentarono un ricorso davanti al Tribunale. Quest’ultimo respinse la domanda, affermando che, nonostante in diritto italiano non esistesse alcuna norma che prevedesse quale cognome dare ai figli legittimi, imporre quello del padre era una regola corrispondente ad un principio radicato nella coscienza sociale e storica italiana. Il Tribunale rilevò inoltre che tutte le donne sposate adottavano il nome del marito e pertanto i figli potevano essere iscritti solo sotto il cognome comune dei coniugi. I ricorrenti proposero ricorso in appello. La Corte d’Appello confermò la sentenza di primo grado, rifacendosi anche alla giurisprudenza della Corte Costituzionale che aveva affermato che l’impossibilità per la madre di trasmettere ai figli legittimi il proprio cognome non violava il principio di uguaglianza tra i cittadini. I ricorrenti presentarono ricorso in Cassazione. La Suprema Corte sospese il procedimento e rinviò il caso alla Corte Costituzionale. Con sentenza del 16 febbraio 2006, la Corte Costituzionale dichiarò inammissibile la questione di legittimità sollevata. Pur ritenendo che il sistema di attribuzione del cognome paterno derivasse da una concezione patriarcale della famiglia che aveva le sui radici nel diritto romano e che fosse non compatibile con i principi costituzionali di parità tra uomo e donna, ritenne che la scelta tra diverse soluzioni doveva essere operata dal legislatore. Conseguentemente, con sentenza del 29 maggio 2006, la Corte di Cassazione prese atto della decisione adottata dalla Corte Costituzionale e respinse il ricorso dei ricorrenti. Il 31 marzo 2011, i ricorrenti chiesero al Ministro degli Interni di poter aggiungere al cognome paterno dei figli anche quello materno. Con decreto del 14 dicembre 2012, il Prefetto di Milano autorizzò i coniugi a modificare il cognome dei figli in “Fazzo Cusan”. I ricorrenti si sono lamentati che l’impossibilità di attribuire alla figlia il cognome della madre, all’epoca dei fatti, viola l’articolo 8, solo o combinato con l’articolo 14 della Convenzione. Inoltre i ricorrenti si sono lamentati della violazione dell’articolo 5 del Protocollo n. 7 (uguaglianza tra i coniugi) preso isolatamente o combinato con l’articolo 14 della Convenzione, in quanto le disposizioni legislative riguardanti l’imposizione del cognome paterno anziché materno ai figli legititmi non garantisce la parità tra i coniugi. Il ricorso è stato presentato il 13 dicembre 2006. La C.E.D.U. ha affermato che vi è discriminazione quando le persone che si trovino in una situazione simile sono trattate differentemente senza una giustificazione oggettiva e ragionevole. La giustificazione deve valutarsi alla luce dei principi alla base di una società democratica. Ora, la regola secondo cui i figli legittimi si vedono attribuire il cognome paterno alla nascita deriva da alcune norme del codice civile italiano. La legislazione interna non prevede alcuna eccezione a questa regola. Nonostante il Prefetto di Milano abbia autorizzato i ricorrenti ad aggiungere il cognome della madre ai loro figli tale cambiamento non corrisponde al desiderio iniziale degli stessi, i quali avrebbero voluto attribuire alla figlia il solo cognome della madre. La C.E.D.U. ha ritenuto pertanto che nell’attribuzione del cognome ai figli legittimi, i genitori sono stati trattati in modo diverso. In effetti, nonostante l’accordo tra i coniugi, la madre non ha potuto attribuire il proprio cognome alla figlia. La C.E.D.U. ha quindi ricordato l’importanza di procedere verso l’uguaglianza tra i sessi, procedendo all’eliminazione delle discriminazioni fondate sul sesso nella scelta del cognome. La C.E.D.U. ha poi affermato che la tradizione di imporre il cognome paterno non può giustificare una discriminazione nei confronti delle donne. Conseguentemente, l’impossibilità di derogare alle disposizioni che impongono l’attribuzione del solo cognome paterno è stata ritenuta una violazione dell’articolo 14 combinato con l’articolo 8 della Convenzione. Infine, la C.E.D.U. non ha ritenuto di dover esaminare il caso sotto il profilo dell’articolo 5 del Protocollo n. 7, solo o combinato con l’articolo 14 della Convenzione.

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