Ergastolo e rito abbreviato: il caso Scoppola c. Italia (n.2), i suoi fratelli minori e la giurisprudenza successiva della Corte europea dei diritti dell’uomo

Strasburgo, 22 luglio 2021 – La nota sentenza di Grande Camera Scoppola c. Italia (n. 2) del 17 settembre 2009, la Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in poi Corte EDU) ha accertato la violazione da parte  dell’Italia degli articoli 6 § 1 e 7 della Convenzione a causa del caotico quadro normativo regolante l’accesso al rito abbreviato per le persone imputate di reati puniti con l’ergastolo. In seguito a tale pronuncia le giurisdizioni italiane si sono adeguate e hanno recepito i principi stabiliti dai Giudici di Strasburgo e ora la Corte EDU con una recente decisione e tre gruppi di ricorsi comunicati ha precisato ulteriormente attraverso una casistica specifica i termini di applicazione dei principi elaborati nella sentenza “Scoppola”. Qui di seguito sono riassunte brevemente le varie tappe e i fatti salienti rilevanti.   

  1. Il caso Scoppola c. Italia (n. 2)

Nel caso Scoppola c. Italia (n.2), sentenza di Grande Camera del 17 settembre 2009, la Corte EDU”) ha accertato la violazione degli articoli 6 § 1 e 7 della Convenzione. 

Il procedimento penale a livello nazionale 

Il caso riguarda Franco Scoppola (d’ora in poi, “il ricorrente”) il quale il 2 settembre 1999 a seguito di una violenta lite in famiglia uccise la moglie e un figlio. Egli fu quindi indagato per omicidio, tentato omicidio, maltrattamenti e porto d’armi. 

All’udienza preliminare del 18 febbraio 2000 il ricorrente chiese di essere giudicato con rito abbreviato. All’epoca l’articolo 442 § 2 c.p.p. prevedeva che se per il crimine commesso era punibile con l’ergastolo, con il rito abbreviato l’imputato avrebbe potuto, in caso di accertamento della sua colpevolezza, avere una pena più favorevole, pari a trent’anni di reclusione. 

Il GUP autorizzò la celebrazione con rito abbreviato e dopo alcune udienze, all’udienza del 24 novembre 2000 il ricorrente fu riconosciuto colpevole dei reati ascrittigli e fu condannato alla pena di trent’anni di reclusione grazie alla scelta del rito. 

Il 12 gennaio 2001 il Procuratore Generale propose ricorso per cassazione sostenendo che il GUP avrebbe dovuto applicare l’articolo 7 del decreto legge n. 341 del 24 novembre 2000 entrato in vigore quello stesso giorno e poi convertito con legge n. 4 del 19 gennaio 2001. Secondo il Procuratore Generale la modifica all’articolo 442 c.p.p. introdotta dall’articolo 7 della legge n. 341 del 2000[1] prevedeva che in caso di rito abbreviato la reclusione dell’ergastolo doveva sostituire la reclusione dell’ergastolo con isolamento diurno quanto vi era concorso di reati o un reato continuato. La mancata applicazione di tale disposizione aveva comportato un evidente errore di diritto. 

Il ricorrente propose invece appello chiedendo tra l’altro la riduzione di pena. 

Il ricorso in cassazione proposto dal Procuratore Generale fu ritenuto un appello e la Corte di assise di appello fu dichiarata competente ai sensi dell’articolo 580 c.p.p.

Con sentenza del 10 gennaio 2002 la Corte di assise di appello condannò il ricorrente all’ergastolo. Evidenziò che prima dell’entrata in vigore del decreto legge n. 341 del 2000 l’articolo 442 § 2 c.p.p. era interpretato nel senso che la reclusione a vita doveva essere sostituita da una pena di trent’anni di reclusione indipendentemente dalla possibilità di applicare l’isolamento diurno a seguito di un concorso di reati. Il GUP aveva quindi fissato la pena facendo riferimento alla pena più grave senza valutare la questione di sapere se si doveva ordinare l’isolamento diurno in ragione dell’accertamento di colpevolezza pronunciato per altri capi di imputazione. 

Secondo la Corte territoriale dunque, il decreto legge n. 341 del 2000 era entrato in vigore lo stesso giorno della pronuncia emessa dal GUP ed essendo questa una norma procedurale doveva applicarsi a tutti i processi in corso secondo il principio tempus regit actum. Fece inoltre presente che il ricorrente avrebbe potuto ritirare la richiesta di rito abbreviato e farsi giudicare con rito ordinario (art. 8 del decreto legge n. 341 del 2000). 

Il 18 febbraio 2002 il ricorrente propose ricorso per cassazione lamentando tra l’altro che nel suo caso non poteva essergli inflitta la pena dell’ergastolo e tuttavia con sentenza del 20 gennaio 2003 la Corte di Cassazione lo respinse. 

Il ricorrente presentò poi un ricorso straordinario dove lamentò la violazione degli articoli 6 e 7 della Convenzione e tuttavia tale ricorso fu dichiarato inammissibile. 

Norme e prassi rilevanti per il caso di specie

È opportuno ricordare che al momento della commissione del fatto, avvenuto il 2 settembre 1999, il reato contestato al ricorrente era punibile con la pena dell’ergastolo con isolamento diurno, che secondo la sentenza della Corte Costituzionale n. 176 del 1991, impediva l’adozione del rito abbreviato. 

Tuttavia il 2 gennaio 2000 entrò in vigore la legge n. 479 del 1999[2] e l’articolo 30 modificò il comma 2 dell’articolo 442 c.p.p. – fu aggiunta una seconda frase – con cui fu stabilito che in caso di condanna a seguito di processo abbreviato l’ergastolo era sostituito con la reclusione a trent’anni. 

Inoltre con l’articolo 4-ter della legge n. 144 del 5 giugno 2000, entrata in vigore l’8 giugno 2000, fu stabilito che tale possibilità era accessibile solo agli imputati il cui processo era ancora in fase istruttoria al 7 giugno 2000. 

Il decreto legge n. 341 del 2000 entrato in vigore il 24 novembre 2000 e convertito in legge n. 4 del 19 gennaio 2001 diede poi “un’interpretazione autentica” della seconda frase del secondo comma dell’articolo 442 c.p.p. secondo la quale la pena dell’ergastolo doveva essere inteso come quello facente riferimento all’ergastolo senza isolamento diurno. 

Il procedimento davanti alla Corte EDU

Il 24 marzo 2003 il ricorrente presentò un ricorso davanti alla Corte EDU[3].

Il ricorrente con il suo ricorso lamentò la violazione di diversi articoli della Convenzione – articoli 3, 5, 6 e 7 della Convenzione – e con una prima decisione dell’8 settembre 2005, la Corte EDU dichiarò ricevibile solo la doglianza di cui all’articolo 7 della Convenzione. 

In seguito con una seconda decisione del 13 maggio 2008, riqualificò la doglianza proposta dal ricorrente ritenendo che questi avesse eccepito non solo la violazione dell’articolo 7 della Convenzione, ma anche la violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione riguardo all’introduzione delle norme previste dal decreto legge n. 341 del 2000. 

Il 2 settembre 2008 il caso fu rimesso alla Grande Camera che con sentenza del 17 settembre 2009 dichiarò che vi era stata violazione degli articoli 6 § 1 e 7 della Convenzione. 

Riguardo all’articolo 7 della Convenzione, il ricorrente aveva lamentato la violazione di tale disposizione sotto tre profili. 

Il primo riguardava l’applicazione retroattiva della legge penale. Secondo il ricorrente nonostante l’articolo 442 c.p.p. fosse una norma inserita nel codice di procedura penale doveva essere considerata come una disposizione di diritto penale sostanziale. Essa andava infatti ad incidere non sulla procedura di esecuzione della pena ma sulla sua determinazione, dunque doveva essere considerata come una “legge penale” ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione. Di conseguenza, alla luce di tale ragionamento, il ricorrente lamentò di essere stato vittima di un’applicazione retroattiva delle disposizioni contenute nel decreto legge n. 341 del 2000. 

Il secondo profilo riguardava la violazione del principio di retroattività della legge penale più favorevole. Secondo il ricorrente nel suo caso era stato violato anche questo principio, ricompreso nell’articolo 7 della Convenzione. 

Il terzo profilo riguardava infine la mancanza di chiarezza della legge che aveva determinato la sua reclusione a vita. Secondo il ricorrente l’esigenza di “interpretazione autentica” prevista dall’articolo 7 del decreto legge n. 341 del 2000 evidenziava di per sé che la legge penale non era prevedibile. 

Nella sentenza del 17 settembre 2009 (si vedano i (§§ 92-109) la Corte EDU ha richiamato i principi generali elaborati dalla giurisprudenza sull’interpretazione dell’articolo 7 della Convenzione e in particolare il principio di preminenza del diritto; il divieto di applicare in modo retroattivo il diritto penale a discapito dell’accusato; il principio di legalità dei delitti e delle pene che vieta di estendere il campo di applicazione delle sanzioni esistenti a fatti che anteriormente non costituivano reato e che vieta di applicare la legge in modo estensivo a discapito dell’accusato, per esempio per analogia. Ricordò poi la nozione di pena – di portata autonoma, applicata a seguito di una condanna per un reato – e di prevedibilità della legge penale. 

Riguardo alla prima questione sollevata, secondo la Corte EDU il secondo paragrafo dell’art. 442 c.p.p. riguardava la severità della pena da applicare qualora il procedimento si svolga con rito abbreviato e di conseguenza si trattava di una sanzione imposta a seguito di una condanna per un reato penale previsto nel diritto interno che aveva lo scopo sia repressivo sia dissuasivo (Welch, § 28). Inoltre costituiva una “pena” inflitta per fatti contestati all’imputato e non invece una misura che riguardava l’esecuzione o l’applicazione della pena (Kafkaris, § 42). In conclusione l’art. 442 § 2 c.p.p. doveva ritenersi una disposizione di diritto penale sostanziale e quindi l’articolo 7 § 1 ultima frase doveva ritenersi applicabile al caso di specie. 

Riguardo alla seconda e terza questione, la Corte EDU ha ritenuto che le modifiche all’articolo 442 c.p.p. a seguito della legge n. 479 del 1999 dovevano considerarsi norme più favorevoli all’imputato in quanto, intervenute successivamente, prevedevano una pena più favorevole. E ciò era effettivamente avvenuto nel caso di specie. 

Tuttavia a seguito delle ulteriori modifiche all’articolo 442 c.p.p. avvenute per l’entrata in vigore del decreto legge n. 341 del 2000, che non doveva considerarsi di “interpretazione autentica” ma piuttosto di nuova regolamentazione della pena, al ricorrente era stata applicata una legge più sfavorevole. 

Per le ragioni esposte la Corte EDU ha concluso per la violazione dell’articolo 7 § 1 della Convenzione. 

Riguardo all’articolo 6 § 1 della Convenzione, la Corte EDU ha ritenuto che le modiche legislative introdotte con il decreto legge n. 341 del 2000 abbiano violato il diritto all’equo processo e di conseguenza ne ha dichiarato la violazione. 

  1. Brevi cenni sull’evoluzione giurisprudenziale a livello nazionale 

Dopo la sentenza Scoppola c. Italia (n. 2), a livello nazionale davanti ai Giudici dell’esecuzione molti ergastolani presentarono diverse istanze volte all’applicazione dei principi stabiliti dalla Corte EDU. 

Con sentenza n. 34233 del 19 aprile 2012 (Giannone) le Sezioni Unite della Corte di Cassazione stabilirono che le persone condannate all’ergastolo che non avevano domandato l’accesso al rito abbreviato tra il 2 gennaio e il 24 novembre 2000 non potevano ottenere l’applicazione dei principi stabiliti dalla Corte EDU nella sentenza Scoppola c. Italia (n. 2), in quanto non si trovavano nella stessa situazione. 

Con ordinanza del 19 aprile 2012 (Ercolano) sempre le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sollevarono una questione di legittimità costituzionale dell’articolo 7 del decreto legislativo n. 341 del 2000  che fu esaminata e decisa dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 210 del 2013

Brevemente, ad avviso della Corte costituzionale, la sentenza Scoppola c. Italia (n. 2), pur non essendo una sentenza c.d. “pilota” aveva nondimeno evidenziato una violazione di carattere strutturale della Convenzione nell’ordinamento interno, dovuta alla non conformità dell’articolo 7 del decreto legge n. 341 del 2000. Pertanto lo Stato italiano era obbligato a porre rimedio sia alla situazione di illegittimità convenzionale sia a rimuoverne le conseguenze nei riguardi di tutti i condannati che versano nelle medesime condizioni del caso Scoppola c. Italia (n. 2).

Il Giudice delle leggi precisò inoltre che andavano eliminati gli effetti già definitivamente prodotti in vicende eguali a quella in cui era stata riscontrata l’illegittimità convenzionale, in cui tuttavia gli interessati non avevano presentato un ricorso individuale alla Corte di Strasburgo e le loro decisioni erano divenute nel frattempo inoppugnabili. Secondo la Corte costituzionale non si potevano frapporre ostacoli all’estensione degli effetti della Convenzione a casi analoghi a quello relativo al caso Scoppola c. Italia (n. 2), nonostante si fosse già formato il giudicato. Invero nel sistema italiano di diritto penale sostanziale, come ad esempio per l’abolitio criminis (art. 2, co. 2, c.p. e art. 673 c.p.p.), il legislatore aveva ritenuto recessivo il valore del giudicato al cospetto di alcune situazioni sopravvenute.

  1. La giurisprudenza della Corte EDU dopo il caso Scoppola c. Italia (n. 2)

In seguito sulla vicenda riguardante il rito abbreviato e l’accesso di persone condannate all’ergastolo alla pena più favorevole di trent’anni di reclusione esaminata nel caso Scoppola c. Italia (n. 2), la Corte EDU si è pronunciata con decisione del 29 settembre 2020 nel caso Ambrosio c. Italia (ricorso n. 47271/16)

In tale pronuncia la Corte EDU ha esaminato il caso di un ricorrente che il 29 aprile 1998 fu giudicato con rito ordinario e condannato all’ergastolo dalla Corte di assise di Napoli. Tale condanna fu confermata in secondo grado davanti alla Corte di assise di appello di Napoli il 22 novembre 1999. 

In seguito con il ricorso in cassazione, il ricorrente chiese di poter ottenere la riduzione della pena chiedendo l’applicazione dell’articolo 442 c.p.p. così come modificato dalla legge n. 479 del 16 dicembre 1999 (la c.d. Legge Carotti). In effetti solo in quel momento della procedura era entrata in vigore la nuova normativa più favorevole.

Il suo ricorso fu respinto con sentenza del 22 ottobre 2000, depistata in cancelleria il 24 novembre 2000, in quanto secondo la legge n. 144 del 2000 solo gli imputati che potevano essere condannati all’ergastolo il cui processo era ancora in fase istruttoria al 7 giugno 2000 avevano la possibilità di accedere a tale procedura e quindi di beneficiare di una riduzione di pena. 

Il 2 gennaio 2014 il ricorrente presentò un’istanza al giudice dell’esecuzione per ottenere una rideterminazione della pena conformemente ai principi stabiliti nel caso Scoppola c. Italia (n. 2)

Il 18 novembre 2014 la Corte di appello di Napoli quale giudice dell’esecuzione respinse la richiesta in quanto i principi “Scoppola” non erano applicabili al caso di specie: in effetti il ricorrente non era stato giudicato con rito abbreviato e aveva presentato la sua richiesta di accesso al rito speciale tardivamente. 

Con sentenza del 20 ottobre 2015 la Corte di Cassazione confermò la decisione della Corte di appello di Napoli. 

Nel caso Ambrosio c. Italia, la Corte EDU ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal ricorrente in quanto ha ritenuto che a partire dal 2013 in poi si era formata una giurisprudenza pacifica che aveva stabilito che in ipotesi come la sua – proposizione della richiesta di accesso a rito abbreviato solo in cassazione – la richiesta di rideterminazione della pena doveva essere respinta. 

Sempre secondo la Corte EDU, l’incidente di esecuzione presentato il 2 gennaio 2014 non poteva essere considerato un rimedio da esperire ai sensi dell’articolo 35 della Convenzione in quanto per la decorrenza del termine dei sei mesi si sarebbe dovuto prendere  in considerazione, eventualmente, la sentenza della Corte di Cassazione depositata in cancelleria il 24 novembre 2000. 

La Corte EDU il 23 settembre 2020 ha inoltre comunicato al Governo italiano tre gruppi di ricorsi.

Il primo riguarda i ricorsi Vadalà e Licandro c. Italia, dove è all’esame il caso di ricorrenti che si sono trovati nell’impossibilità di sostituire la pena dell’ergastolo con quella di trent’anni di reclusione nonostante fossero stati ammessi al rito abbreviato ai sensi della legge n. 479 del 1999 prima che questa fosse modificata dal decreto legge n. 341 del 2000. 

Invocando gli articoli 6 e 7 della Convenzione e i principi stabiliti dalla sentenza Scoppola c. Italia (n. 2), i ricorrenti lamentano che è stato loro negata la possibilità di beneficiare di una pena più favorevole a causa della modifica a loro sfavore dell’accordo che era stato già raggiunto con l’accoglimento della loro richiesta di essere processati con rito abbreviato. Uno di loro si duole anche della violazione dell’articolo 5 della Convenzione, lamentando che l’ergastolo che sta scontando è arbitrario e viola il principio di sicurezza giuridica. 

Il secondo gruppo riguarda i ricorsi Aspa c. Italia e altri cinque ricorsi, dove è all’esame il caso di ricorrenti che si sono trovati nell’impossibilità di sostituire la pena dell’ergastolo con quella di trent’anni di reclusione a causa della rinuncia alla loro richiesta di rito abbreviato di cui alla legge n. 479 del 1999, avvenuta a causa della modifica apportata dalla legge n. 341 del 2000, poi dichiarata incostituzionale. 

In tutti questi ricorsi i ricorrenti lamentano la violazione degli articoli 6 e 7 della Convenzione per aver dovuto rinunciare al rito abbreviato a causa di una legge dichiarata poi incostituzionale e di non aver quindi potuto beneficiare di una applicazione di pena più favorevole. 

Le domande formulate dalla Corte EDU si fondano sui principi elaborati nel caso Scoppola c. Italia (n. 2). Inoltre, per uno solo dei ricorsi è stata eccepita anche la violazione dell’articolo 13 della Convenzione. 

Il terzo gruppo riguarda infine i ricorsi Cotena c. Italia e altri tre ricorsi, dove è all’esame il caso di ricorrenti che potendo essere condannati alla pena dell’ergastolo nel corso della procedura penale non hanno potuto chiedere di essere giudicati con rito abbreviato a causa delle modifiche apportate alla legge n. 479 del 1999 dal decreto legge n. 341 del 2000. 

Anche in questi ricorsi si lamenta la violazione degli articoli 6 e 7 della Convenzione e le domande formulate dalla Corte EDU si fondano sui principi elaborati nel caso Scoppola c. Italia (n. 2). Anche qui per uno solo dei ricorsi è stata eccepita anche la violazione dell’articolo 13 della Convenzione. 

Attualmente i tre gruppi di ricorsi comunicati sono in trattazione davanti alla Corte EDU. 


[1] Tale nuova normativa aveva dato un’interpretazione autentica del secondo paragrafo dell’articolo 442 c.p.p. 

Secondo gli articoli 7 e 8 fu disposto: 

Art. 7.

1. Nell’articolo 442, comma 2,  ultimo  periodo,  del  codice  di procedura penale, l’espressione “pena dell’ergastolo” deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno.

  2. All’articolo 442, comma 2, del codice di  procedura  penale,  e’ aggiunto, in fine, il seguente periodo: “Alla pena dell’ergastolo con isolamento  diurno,  nei  casi  di  concorso  di  reati  e  di  reato continuato, e’ sostituita quella dell’ergastolo.”. 

Art. 8

1. Nei processi penali in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto-legge, nei casi in cui e’ applicabile o e’ stata applicata  la  pena dell’ergastolo con isolamento diurno, se e’ stata formulata la richiesta di giudizio abbreviato, ovvero la richiesta di cui  al  comma 2 dell’articolo 4-ter del decreto-legge 7 aprile 2000, n.  82,  convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000, n. 144,  l’imputato  puo’  revocare  la  richiesta nel termine di trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente  decreto.  In tali casi il procedimento riprende secondo il rito  ordinario  dallo  stato  in  cui si trovava allorché era stata fatta  la  richiesta.  Gli  atti di istruzione eventualmente compiuti sono  utilizzabili  nei limiti stabiliti dall’articolo 511 del codice di procedura penale.

  2.  Quando  per  effetto  dell’impugnazione  del pubblico ministero possono  essere  applicate  le  disposizioni  di  cui all’articolo 7, l’imputato  può  revocare la richiesta di cui al comma 1 nel termine di  trenta  giorni  dalla  conoscenza  dell’impugnazione del pubblico ministero  o, se questa era stata proposta anteriormente alla data di entrata  in  vigore  della legge di conversione del presente decreto, nel  termine  di  trenta giorni da quest’ultima data. Si applicano le disposizioni di cui al secondo ed al terzo periodo del comma 1. (…).

[2] La c.d. Legge Carotti.

[3] È importante rilevare che il ricorso fu presentato tempestivamente poiché fu depositato entro i sei mesi dalla data della pronuncia della Suprema Corte così come richiesto dall’articolo 35 della Convenzione.

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