Nel caso Costa e Pavan la C.E.D.U. ha accertato la violazione del diritto fondamentale al rispetto alla vita privata e familiare garantito dall’articolo 8 della Convenzione a causa del divieto imposto ad una coppia portatrice di una malattia genetica di ricorrere alla diagnosi pre-impianto per una fecondazione in vitro

Strasburgo, 30 settembre 2012 – Con sentenza del 28 agosto 2012, la C.E.D.U. ha deciso che nel caso Costa e Pavan c. Italia (ricorso n. 54279/10) vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare).

La vicenda riguarda una coppia italiana portatrice sana di una grave malattia genetica che, per evitare di trasmettere tale malattia avrebbe voluto ricorrere alla procreazione medicalmente assistita con la possibilità così di selezionare gli embrioni sani attraverso il loro esame genetico. Tuttavia la coppia non ha potuto accedere alla diagnosi genetica pre-impianto perché vietata dalla legge n. 40 del 19 febbraio 2004.

I giudici di Strasburgo hanno rilevato l’incoerenza del sistema legislativo italiano. Da una parte esso priva i ricorrenti dell’accesso alla diagnosi genetica pre-impianto, e dall’altra, li autorizza ad effettuare un’interruzione di gravidanza nel momento in cui risulti che il feto concepito è malato della malattia genetica di cui sono affetti.

Secondo la C.E.D.U. l’ingerenza nella vita privata e familiare è sproporzionata.

Nel caso specifico, i ricorrenti sono due coniugi italiani che nel 2006, al momento della nascita della loro prima figlia, scoprirono di essere portatori sani della mucoviscidosi. La loro prima figlia aveva infatti questa grave malattia. Nel 2010 la signora Costa rimase nuovamente incinta. Eseguita una diagnosi prenatale, i ricorrenti scoprirono che il feto era affetto da mucoviscidosi. La signora Costa decise allora di ricorrere all’aborto terapeutico.

La coppia è quindi ricorsa alla C.E.D.U. esponendo che pur desiderando un bambino attraverso il metodo della fecondazione in vitro – la procreazione medicalmente assistita, in modo che l’embrione possa essere sottoposto ad una diagnosi genetica pre-impianto, ciò gli è impedito dalla legge n. 40 del 19 febbraio 2004.

Nel caso di specie i ricorrenti hanno inoltre evidenziato che la diagnosi pre-impianto è autorizzata dal decreto ministeriale n. 31639 dell’11 aprile 2008 solo nel caso di coppie sterili o di coppie in cui l’uomo è affetto da una malattia virale trasmissibile per via sessuale come l’aids o l’epatite B e C.

I ricorrenti hanno pertanto eccepito la violazione dell’articolo 8 della Convenzione (diritto ala rispetto della vita privata e familiare) in quanto, per avere un figlio sano, avrebbero dovuto iniziare ogni volta una gravidanza e, nel caso avessero accertato la trasmissione della malattia genetica, avrebbero potuto far ricorso all’aborto terapeutico, mentre non potevano ricorrere alla procreazione medicalmente assistita e alla diagnosi pre-impianto, tecniche senz’altro meno invasive e doloroe. Inoltre hanno eccepito la violazione dell’articolo 14 della Convenzione (divieto di discriminazione) perché hanno ritenuto di essere stati discriminati rispetto alle coppie sterili e a quelle dove l’uomo è portatore di una malattia sessualmente trasmissibile.

Il caso, presentato il 20 settembre 2010 e trattato in via prioritaria, ha sollevato parecchio interesse a livello nazionale. Nel corso della procedura si sono costituite, quali terzi intervenenti ai sensi degli articoli 36 § 2 della Convenzione e 44 § 3 del Regolamento, anche diverse associazioni, tra cui l’associazione “Luca Coscioni”.

La C.E.D.U. ha ritenuto che la richiesta dei ricorrenti di poter accedere alla procreazione medicalmente assistita e alla diagnosi pre-impianto per avere un bambino sano, in considerazione della malattia genetica di cui sono portatori sani, costituisca una forma di espressione del loro diritto alla vita privata e familiare garantito dall’articolo 8 della Convenzione.

La C.E.DU. ha inoltre constatato che il divieto imposto ai ricorrenti costituisce un’ingerenza “prevista dalla legge” e che ha lo scopo di proteggere la morale e i diritti e le libertà d’altri.

Il Governo italiano ha giustificato tale ingerenza affermando che le limitazioni di legge imposte avrebbero lo scopo di tutelare la salute del “bambino” e della donna, la dignità e la libertà di coscienza dei medici e di evitare il rischio di derive eugeniche.

Riguardo alle argomentazioni sollevate dal Governo, la C.E.D.U. ha innanzitutto precisato che un embrione non può essere certamente considerato come un bambino.

La C.E.D.U. ha quindi ritenuto irragionevole la posizione del Governo.

Essa ha infatti rilevato che il sistema giuridico italiano  da una parte impedisce la diagnosi pre-impianto per accertare la presenza della malattia genetica e, dall’altra, autorizza gli interessati a praticare un aborto terapeutico quando si riscontra che il feto è malato. La C.E.D.U. ha inoltre posto l’accento sul fatto che un aborto terapeutico ha conseguenze dolorose sia per il feto che per i genitori e in particolar modo per la madre.

La C.E.D.U. ha poi tenuto a sottolineare le differenze tra il caso Costa e Pavan c. Italia e S.H. c. Austria dove si era affrontata la questione dell’accesso alla fecondazione eterologa.

Nel caso di specie infatti la C.E.D.U. è stata chiamata a verificare se in un caso di fecondazione omologa come quello in esame vi fosse stata proporzionalità nel divieto imposto dalla legge n. 40/2004 a fronte  della possibilità di praticare un aborto terapeutico, previsto dalla legge, in caso in cui il feto fosse affetto da una malattia come quella di cui i ricorrenti erano portatori sani.

La Corte ha quindi ritenuto che il sistema legislativo italiano è incoerente in quanto lascia ai ricorrenti una sola possibilità, quella dolorosa e piena di sofferenze, ovvero di iniziare una gravidanza e quindi di procedere ad un’interruzione volontaria con un aborto terapeutico ogni volta che dall’esame prenatale risulti che il feto è malato.

Conseguentemente l’ingerenza dello Stato italiano nel diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e familiare è stato ritenuto dalla C.E.D.U. sproporzionato e pertanto in violazione dell’articolo 8 della Convenzione.

Quanto all’articolo 14 della Convenzione, la C.E.D.U. ha invece concluso per la non violazione. Partendo dal principio che una discriminazione nasce da un trattamento diverso applicato a persone che si trovino in situazioni comparabili, la C.E.D.U. ha ritenuto che il divieto di diagnosi pre-impianto è applicato alla stessa categoria di persone e che ad essa non è assimilabile quella delle coppie dove l’uomo è malato di una malattia virale trasmissibile per via sessuale.

Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione, la C.E.D.U. ha condannato lo Stato italiano a pagare ai ricorrenti, a titolo di risarcimento per i danni morali subiti, la somma di 15.000 euro e la somma di 2.500 euro per spese e competenze legali.

A livello normativo interno, la C.E.D.U. ha esaminato non solo la normativa applicabile al caso di specie, ma anche le pronunce emesse in materia dalle giurisdizioni interne, richiamando due sole sentenze, la sentenza del T.A.R. del Lazio n. 398 del 21 gennaio 2008 e l’ordinanza del Tribunale di Salerno n. 12474/09 del 13 gennaio 2010.

Ha poi esaminato una serie di Convenzioni regolanti la materia a livello internazionale. In particolare ha esaminato la Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 sui diritti dell’uomo e la biomedicina, la direttiva europea n. 2004/23CE del Parlamento europeo e del Consiglio europeo del 31 marzo 2004, il documento di base sulla diagnosi pre-impianto e prenatale pubblicato dal Comitato per la bioetica del Consiglio d’Europa del 22 novembre 2010 (CBDI/INF (2010)6), il rapporto di “Diagnosi genetica per reimpianto in Europa” della Joint Reserach Centre della Commissione europea del dicembre 2007 (EUR 22764 EN) e il rapporto consultativo riguardante le malattie rare e la necessità di un’azione comune del Parlamento europeo del 23 aprile 2009. Infine, la C.E.D.U. ha condotto un esame comparato dei vari sistemi legislativi degli Stati europei facenti parte del Consiglio d’Europa, riscontrando che la diagnosi pre-impianto per prevenire la trasmissione di malattie genetiche è vietata solo in Austria, Italia e Svizzera e che in quest’ultimo paese si sta procedendo per una riforma legislativa.

La sentenza ha suscitato reazioni anche forti a livello nazionale.

In particolare il Governo italiano è intenzionato a ricorrere alla Grande Camera della C.E.D.U. perché si pronunci riformando la sentenza del 28 agosto 2012 e dichiarando che non vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione.

Ritengo che la C.E.D.U. nell’esaminare la vicenda sia stata prudente ed abbia valutato con attenzione tutti gli aspetti, attenendosi all’esame del caso specifico.

Pertanto sarà difficile convincere i Giudici di Strasburgo, anche riuniti in Grande Camera, che il divieto della diagnosi pre-impianto su embrioni provenienti da una coppia portatrice di una grave malattia genetica possa essere ritenuto legittimo in una società democratica, tanto più quando nel sistema giuridico italiano è previsto comunque l’aborto terapeutico in caso di riscontro della stessa malattia nel feto.

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