Nel caso Smaltini c. Italia la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto che le emissioni provenienti dallo stabilimento ILVA di Taranto non siano state la causa dell’insorgenza della malattia mortale contratta dalla ricorrente

Strasburgo, 4 maggio 2015 – Con la decisione del 16 aprile 2015 la Seconda sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in poi la C.E.D.U.) ha dichiarato irricevibile il ricorso promosso dalla signora Giuseppina Smaltini. La ricorrente, deceduta dopo la presentazione del ricorso, aveva lamentato la violazione dell’articolo 2 della Convenzione (diritto alla vita), sostenendo che vi fosse un nesso causale tra le polluzioni inquinanti emesse dallo stabilimento ILVA di Taranto e l’insorgere della sua leucemia.

La ricorrente, cittadina italiana nata nel 1954, risiedeva a Taranto ove ha la sede produttiva principale l’acciaieria ILVA, stabilimento con impatto fortemente inquinante sull’ambiente e al centro di diversi procedimenti penali. Il 12 settembre 2006 fu diagnosticata alla ricorrente una leucemia mieloide acuta. La ricorrente decise di procedere nei confronti dei proprietari dell’ILVA asserendo che le emissioni nocive provenienti dallo stabilimento erano la causa della sua patologia. Secondo la ricorrente, in ragione delle emissioni dell’acciaieria ILVA il numero di decessi dovuto a malattie tumorali era aumentato significativamente nella regione di Taranto. Il 10 settembre 2007 il pubblico ministero chiese al G.I.P. presso il Tribunale di Taranto di archiviare il caso poiché riteneva che il legame tra le emissioni nocive e la patologia della ricorrente non fosse stato provato. Il 23 aprile 2008 il G.I.P. rigettò tale richiesta e ordinò che fosse effettuata una consulenza  medica ematologica al fine di stabilire le cause della malattia della ricorrente e la sussistenza di un eventuale rapporto causale tra l’inquinamento e la patologia. Gli esperti, tuttavia, conclusero che non era stata riscontrata un’incidenza maggiore della leucemia con riferimento al gruppo di età al quale la ricorrente apparteneva nella zona di Taranto rispetto alle altre regioni italiane. Di conseguenza, nonostante avessero notato che le emissioni inquinanti provenienti dall’acciaieria ILVA non fossero senza conseguenze per la salute, sulla base dei dati scientifici disponibili, gli esperti esclusero l’esistenza di un qualsiasi rapporto di causalità tra le emissioni in questione e la malattia della ricorrente. Il 19 gennaio 2009 il G.I.P. presso il Tribunale di Taranto archiviò definitivamente il caso, ritenendo non sufficientemente provato il nesso di causalità tra le emissioni prodotte dallo stabilimento ILVA e i casi di malattia e decessi nella zona.Il 21 dicembre 2012 la signora Smaltini morì a causa di una meningite incurabile causata dall’immunodeficienza dovuta alla sua malattia.

Invocando l’articolo 2 della Convenzione, la ricorrente presentò ricorso alla C.E.D.U., lamentando la violazione del suo diritto alla vita e eccependo che vi fosse un nesso di causalità ttra le emissioni nocive dell’acciaieria ILVA e lo sviluppo della sua malattia.

La C.E.D.U., nella decisione sulla ricevibilità del ricorso, ha evidenziato che la ricorrente si era lamentata non tanto del fatto che le autorità interne avessero omesso di assumere delle misure legali o amministrative tese alla protezione del suo diritto alla vita, ma piuttosto del fatto che esse non avessero constatato l’esistenza del nesso di causalità  tra le emissioni inquinanti dell’acciaieria ILVA e l’insorgere della sua malattia. Tale puntuale chiarimento è servito alla C.E.D.U. per limitare il proprio esame esclusivamente sulle eccezioni così come testualmente proposte dalla ricorrente.

I Giudici di Strasburgo hanno quindi rilevato che, sulla base delle perizie esaminate dalle autorità giurisdizionali interne, non era stata accertata un’incidenza maggiore della leucemia nella regione di Taranto rispetto alle altre regioni italiane. La C.E.D.U. ha notato poi che la ricorrente aveva beneficiato di un procedimento in contraddittorio nel corso del quale le indagini furono compiute su sua richiesta, sebbene senza successo. La C.E.D.U. ha quindi concluso, affermando che la ricorrente non aveva provato, alla luce delle conoscenze scientifiche disponibili all’epoca dei fatti di causa, e senza pregiudizio dei risultati degli studi scientifici futuri, che le autorità italiane fossero venute meno rispetto al loro obbligo di proteggere il suo diritto alla vita sotto il profilo procedurale dell’articolo 2  della Convenzione. Per tale motivo la C.E.D.U. ha dichiarato irricevibile il ricorso perché ritenuto infondato.

A mio avviso, la decisione in commento suscita alcune perplessità.

In effetti, facendo riferimento alla giurisprudenza sviluppatasi proprio in materia ambientale, la C.E.D.U. avrebbe forse potuto modificare e valutare la doglianza proposta dalla ricorrente sotto il profilo dell’articolo 8 della Convenzione piuttosto che sotto quello indicato dall’interessata.

Ricordo infatti che nel caso Guerra e altri c. Italia (ric. n. 116/1996/735/932 del 19 febbraio 1998), la C.E.D.U., dopo aver dichiarato la violazione dell’articolo 8 della Convenzione affermando che “gravi danni ambientali possono influire sul benessere degli individui e impedire loro di godere delle proprie abitazioni in modo da incidere sulla loro vita privata e familiare”, non ha ritenuto necessario esaminare la doglianza anche con riferimento all’articolo 2 della Convenzione, essendo già stata dichiarata la violazione sotto il profilo del diritto al rispetto alla vita privata e familiare.

Nel caso Smaltini quindi, la C.E.D.U., modificando il parametro convenzionale invocato dall’interessata, avrebbe potuto valutare in concreto, ma sotto il profilo dell’articolo 8 della Convenzione, se lo Stato italiano avesse o meno adempiuto agli obblighi positivi gravanti su di esso in materia di diritto all’ambiente salubre.

Ricordo infatti che, a partire dal caso López Ostra c. Spagna (ric. n. 16798/90 del 9 dicembre 1994), la C.E.D.U. ha riconosciuto una correlazione tra inquinamento ambientale e danni alla persona. In quel caso era in causa uno stabilimento di smaltimento rifiuti posto nelle vicinanze dell’abitazione della ricorrente. Sempre nel caso López Ostra i danni causati alla ricorrente a causa delle emissioni inquinanti furono valutati dalla C.E.D.U. sotto il profilo dell’articolo 8 sancendo l’obbligo per lo Stato di proteggere i cittadini. Tale obbligo è stata ribadito, più di recente, nel caso Di Sarno c. Italia (ric. n. 30765/08 del 10 gennaio 2012), ove i Giudici di Strasburgo hanno affermato l’esistenza di obblighi positivi per lo Stato di adottare misure ragionevoli e appropriate per tutelare il diritto al rispetto della vita privata e familiare e, più in generale, al godimento di un ambiente sano e protetto.

Il caso Smaltini avrebbe quindi potuto essere l’occasione giusta per evidenziare, anche a livello internazionale, il grave problema esistente in Italia, dove la tutela ambientale non è ancor oggi sufficientemente garantita.

Faccio in particolare riferimento alle garanzie legislative esistenti che, ad oggi, sono del tutto insufficienti. Ricordo infatti che è solo a partire dal 2006, con l’emanazione del decreto legislativo n. 156 del 2006, che per la prima volta il legislatore italiano interviene in modo organico in ambito di reati ambientali, ma nonostante ciò, la risposta penale contro l’inquinamento non è ancora adeguata.

Le garanzie fornite dal legislatore dovrebbero ora essere modificate a breve, quando il disegno di legge sui reati ambientali (n. 1345) sarà finalmente approvato. Il legislatore infatti, dopo più di vent’anni ha intenzione di introdurre, finalmente, norme penali serie ed effettive contro chi provoca disastri o inquinamento ambientale.

Ma ciò non è ancora avvenuto.

Ecco perché il caso Smaltini avrebbe ben potuto essere la buona occasione per riconoscere a livello internazionale l’importanza e l’incomprimibilità del diritto fondamentale alla tutela della salute. Così, ad oggi, il grave inquinamento perpetrato a Taranto dallo stabilimento ILVA è faticosamente contrastato dalle sole autorità giudiziarie, alle quali sono forniti strumenti ancora del tutto inadeguati.

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